domenica 21 aprile 2019

Labirinti

Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, celebrò la vittoria con una danza insieme ai giovani scampati con lui al sacrificio [Iliade, XVIII, 590-606]. La danza, che lo stesso Dedalo aveva composto, si svolgeva in due fasi: nella prima i danzatori imitavano i meandri intricati del labirinto, trascinati all’interno da un capo che impugnava una corda (il filo di Arianna), nella seconda lo stesso capo li tirava fuori dai rigiri ritrovando l’ordine perduto. La danza era dunque la rappresentazione di un enigma e della sua soluzione.

La leggenda del labirinto è uno dei miti fondativi più intensi della nostra civiltà. La sua immagine e la sua narrazione evocano temi di portata universale. Tra le molte interpretazioni che sono state suggerite – tutte comunque avvolte nel mistero – vogliamo ricordare quella originalissima di Paolo Santarcangeli che si richiama al suffisso –inda, usato nella lingua greca esclusivamente per i giochi dei bambini e nel quale lo stesso Huizinga vedeva l’irriducibilità del concetto di gioco: sfairinda (gioco della palla); streptinda (gioco del lancio); basilinda (gioco del re); helkustinda (tiro alla fune). Secondo Santarcangeli la vecchia etimologia che faceva discendere il nome dalla scure sacrificale labrys è oggi vacillante, e avanza invece l’ipotesi di una derivazione da labra, caverna, miniera con cunicoli e corridoi. Labrinda, e quindi laby-rinthos, starebbe quindi per “gioco della caverna” [P. Santarcangeli, Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo. Frassinelli, Milano, 1984, p. 40].

L’etimologia restituisce il labirinto all’enigma della narrazione, alla creazione di un mondo artificiale che si sostituisce (o si affianca) al mondo naturale. Il labirinto è prima di tutto luogo di ostacoli e di possibili smarrimenti; è un simulacro che crea una rete di inganni e di illusioni. Il labirinto appartiene all’ordine dei mondi possibili che sono creazioni dell’intelletto umano. Il labirinto può avere forma ed essere fatto di muri, corridoi, scale, porte e stanze, oppure può non avere forma alcuna ed essere fatto di dubbi, indecisioni, scelte alternative, miraggi. Come ricorda Jorge Luis Borges nel suo I due re e i due labirinti, c’è il labirinto concreto ma “debole” del re di Babilonia che per burla lascia l’ospite, re di Arabia, vagare al suo interno in preda alla confusione fino a quando stremato si decide ad implorare aiuto. E poi c’è il labirinto immateriale ma “forte” del re d’Arabia che, per vendetta, devasta il regno di Babilonia, fa prigioniero lo stesso re e lo abbandona a morire di fame e di sete nel deserto, un labirinto “dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo” [J.L. Borges, L'Aleph. Feltrinelli, Milano, 1961, p. 135].